Le cose sono belle finché restano piccole?

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Possiamo fare in modo di preservare la bellezza delle cose anche quando si fanno grandi?

Se non ti sei mai fatto questa domanda provo a raccontartene la genesi. La prima volta che ho fatto un pensiero del genere è stato guardando piccole attività commerciali: un ristorante, una gelateria, più in generale un luogo dove si acquistano o consumano beni alimentari – luoghi che osservo e ho osservato con cura e a lungo per via del mio amore per il buon mangiare e per tutto ciò che nutre.

Una piccola attività che, andando molto bene, sceglie di aprire un’altra sede, o più di una, spesso perde appeal, o perde il livello di qualità del prodotto / servizio offerto, oppure fallisce proprio. Nei casi in cui gli affari sembra vadano bene, a me è capitato di constatarne la perdita di una verità, del valore che prima era presente. Non sto parlando di una questione identitaria: si può cambiare, si deve trasformarsi; mi riferisco a un impoverimento in luogo dell’auspicato arricchimento, nella crescita. Si il prodotto c’è, è sempre buono, vende; tutto sommato è ben servito, lo potrei comprare, ma non lo compro più. Ha perso valore e non capisco bene perché, forse ha perso una parte di quell’umano che dà valore all’esperienza, in questo caso del buon mangiare, o perché più banalmente, crescendo non ha imparato ciò che era necessario apprendere? Non è sempre così, lo so, ma ci sono rare eccezioni – nella mia esperienza personale chiaramente. È come se si sottovalutassero delle dinamiche, nella crescita: si sottovaluta forse quello sforzo in più necessario per preservare il valore totale delle cose; ci sono dei soldi, dei dipendenti, un bel locale, il famigerato concept, e si pensa che sia sufficiente. Manca il legame tra tutte queste cose, manca un rinnovato senso del tenerle insieme. Ci si arricchisce perché il fatturato è raddoppiato, ottima cosa; quanto tempo ci farà sopravvivere il cambiamento che l’ha prodotto? E quale altra ricchezza sta producendo?

Dalle PMI alle multinazionali

Per buona parte del mio tempo lavoro per alcune aziende di piccole medie dimensioni, appartenenti a un gruppo, con un passato molto solido e che stanno crescendo: grazie all’intelligenza, all’intuizione, e all’esperienza della proprietà, mi sembra che ci si stia rendendo conto proprio di questo. Che occorre fare uno sforzo in più ora, per preservare e rinnovare il valore, mentre si cresce e mentre si corre, considerata la rapidità dei cambiamenti soprattutto nel settore IT. Come si preserva e si rinnova il valore? Sarebbe sempre bene ripartire dal chiedersi cosa sia. Cos’è importante per noi oggi? Chi lo crea? Dove e come si genera?

Alcune multinazionali, per le quali pure lavoro ma relazionandomi direttamente con figure manageriali, faticano a farsi queste domande. Le singole persone se le fanno, ma vivono la frustrazione di sentirsi sole nel farlo. Tra persone di grande valore umano e professionale, alcune credono di poter fare la differenza, molte altre sono piuttosto rassegnate a riguardo. Il brand vende da solo, si dice. E’ un traguardo incredibile, che necessita un nuovo domandarsi, salvo impiegare le persone come risorse tecnologiche, che contro la macchina non possono che perdere nella lentezza, nella impossibilità alla performance di tempo/precisione e quindi nella corsa alla produttività. E’ un po’ tornare indietro nel tempo.

Per alcune realtà è estremamente difficile, per esempio, non cedere alla tentazione di disumanizzare i contesti di lavoro, abbagliati da certi meccanismi economici e commerciali che trovano la soluzione nel semplificare, per fare prima e vincere. Sembra che non si sia ancora  guardato in faccia e a fondo la questione della competizione e della competitività. La stragrande maggioranza crede ancora di dover annientare l’avversario, piuttosto che fare in modo che resti in gioco. Gli avversari sono tipicamnte i competitor, ma spesso anche le “risorse umane” che transitano o che non sono sufficientemente produttive. Si gioca in un gioco infinito (sopravviere nel mercato, evolvere) senza consapevolezza e seguendo le regole del gioco finito (uno solo sarà vincitore, tutti gli altri sono fuori dai giochi; così facendo, il gioco è finito)1. Ma è complicato, mi sento dire, eh si lo è. Allora ti vorrei ricordare, che si parte sempre piccoli.

Potrei anche citare le riunioni di condominio, ma evito

Torniamo alle piccole attività, alle botteghe, all’artigiano che ci piace e cambiamo punto di vista – dall’utente a chi le micro imprese le vive: la visione può cambiare. Quanto è difficile avere a che fare con quel socio, con un fratello, con quei tre colleghi che vedi ogni giorno in negozio? Non sono mica tutte virtuose le realtà piccole. Beh allora, a maggior ragione: se non sei virtuoso neanche da piccolo, figuriamoci ingrandendoti. Se non riesci a costruire una relazione con tre persone, come credi di poter comunicare con dieci, cento clienti o centoventi dipendenti? Ci si illude che la distanza aiuti. Ma è una illusione, appunto. Talvolta la soluzione certo è cambiare alleanze. In ogni caso, si tratta di fare un passo indietro piuttosto che bypassarlo.

La soluzione del disumanizzare i contesti di lavoro nella crescita è una soluzione facile, perché si  fa prima. Si cresce numericamente ma si continua a non ascoltare nessuno; si cresce anche facendo leva su una tecnologia con la quale pure non si dialoga. Si delega, come facciamo spesso con certe religioni, per avere delle risposte e smettere di farsi domande. La crescita è numerica ma manca la qualità. Si perde perciò il senso, e non c’è nemmeno più nessuno che lo cerca.

Non esiste una misura giusta per tutti. Ciascuno dovrebbe chiedersi, a intervalli regolari: sto crescendo davvero? Sono sempre una cosa bella? E siccome insisto sulla bellezza, il mio pensiero riflessivo non poteva non coinvolgere l’arte2.

Quali sono quegli artisti che, diventando grandi, sono riusciti a rimanere grandi?

Una risposta semplice è: quelli che sono riusciti a non tradirsi. Ma non tradirsi vuol dire impegnarsi continuamente nel comprendere chi si è. Il più difficile dei mestieri, è come l’archeologo, o l’astronomo: fai ipotesi, poi continui a cercare. Andare in giro a guardarsi allo specchio, osservarsi al punto da scomparire per far emergere il nuovo e poter creare quel nuovo che serve anche ad altri. Nell’arte mi vengono più immediate delle risposte, perché più immediato vedo il rapporto tra artista e arte, come fossero in parte destinati a confondersi mutualmente. Un artista che sostiene la sua grandezza è uno che ha capito quale grande occasione l’arte sia per la sua trasformazione: uno che si è dovuto mettere a fondo e continuamente in discussione, uno (uso il maschile della lingua italiana per comodità, ma siamo tutti d’accordo che il genere per l’arte e per l’artista è il più fluid che esista) che sa che aver scoperto la sua vocazione è la sua croce e la sua delizia perché è fonte e sete per la propria trascendenza3. Gli artisti che non colgono questa occasione, perché non hanno voluto o non hanno potuto, hanno fatto una brutta fine. Talvolta nel senso letterale del termine: sono quei grandi potenziali che non sono riusciti a sostenerne il peso per lungo tempo (non esiste il participio passato di soccombere, ma è quello che volevo dire); sono quelli che si sono ammalati, perdendosi, ad esempio in dipendenze che dessero loro il sollievo della gestione di se stessi, del loro piccolo vissuto e insieme di quel grande dono o talento, quelli che da piccoli bus di provincia si son trovati all’improvviso a dover traghettare insieme decine di migliaia di persone, e non ce l’hanno fatta. Altri artisti son finiti male nel senso che il loro talento è imploso, è finito, perchè di fronte alla possibilità di fare quello sforzo hanno scelto la via breve, mortificando o distruggendo il talento e mercificando quello che è rimasto. Sono quelli che invecchiando hanno prodotto o producono robe che si possono solo comprare e usare.

La sequoia, un castagno o quel gattino che fa impazzire il web

Il pensiero comincia a spaziare perché la Natura è sempre lì a portata di mano e ci insegna tutto. Spazia dal mondo vegetale, a quello animale, all’umano. Quanto sono mozzafiato certi alberi secolari?

Tornando al piccolo, sembra che il nostro cervello sia progettato, evolutivamente parlando, per essere particolarmente attratto dai cuccioli (parlo qui del genere umano, ma è evidente che la questione si estende anche al mondo animale) perché ciò garantisce l’attivazione del sistema motivazionale dell’accudimento4 e quindi, in ultima istanza, la sopravvivenza in quelle età in cui senza accudimento un cucciolo rischierebbe la morte. I piccoli ci piacciono assai, quindi, anche per una questione istintiva. La società odierna, poi, ha così demonizzato l’invecchiamento che ci viene proprio difficile associare la bellezza a qualcosa che è vecchio. Ma il nonno, con la sua saggezza, trasparenza, semplicità, lentezza, non tiene in sé una grandezza e una bellezza senza termini di paragone? Alcuni nonni, non tutti. E quella credenza nella sala da pranzo? Qui il termine grandezza sta nell’espansione delle esperienze, che si accumulano nel corso della vita e che quindi vanno gestite. Ci si può tuttavia ingessare5, fermandosi a un certa età e ripetendo la propria esistenza per il resto del tempo (essendo sostanzialmente già morti); oppure, si può scegliere di continuare a rimettere in discussione tutto, e ciò richiede un grande lavoro di osservazione, di incertezza, di rinnovamento, una fatica enorme, considerato che anche il corpo con cui possiamo adoperare tutto ciò richiede sempre più manutenzione.

Mettendo insieme la grandezza dell’essere umano con la grandezza delle sue imprese e opere, la vita mi sembra possa essere buona se e quando trova un equilibrio tra queste grandezze, o piccolezze. I concetti sono assolutamente relativi.

Tu, quanto grande riesci a fare il tuo sguardo?

Confesso che, per ora, è che così che “risolvo” il problema: nella consapevolezza di essere piccoli, si trova la tranquillità per sentire che è possibile fare qualcosa di buono. Poi la vita ti fa inciampare in grandiosità, ti fa trovare di fronte persone e opere che traghettano verso stadi del vivere per i quali forse ci sarebbero volute non una e neanche due esistenze. Nel frattempo ci si può chiedere cosa ho bisogno di fare per diventare più grande? Perché accade anche il contrario, e cioè di non voler crescere. Merita nuove riflessioni.

Il pensiero continua a spaziare e va all’esperienza dei viaggi, all’esperienza della conoscenza. Qualcosa di grande che rimpiccioliamo (ci illudiamo?) rischiando di abbrutirli. Nello spaziare la riflessione ha coinvolto il tempo, e rischia di farmi cadere in quel relativismo cosmico in cui mi ritrovo spesso perdendo il bandolo della matassa. Ritrovo a tratti il centro nella parola bellezza.

Si ecco, ogni volta che si vuole fare qualcosa di più grande, una impresa, un’opera, un viaggio in cui ci si spinge un po’ più lontano, un progetto, mi fermo, e mi chiedo – e ti chiedo – se si stia perdendo di bellezza e di grazia, di armonia ed equilibrio, se non si stia mortificando una relazione, le relazioni con le cose e con le altre persone, oppure, cosa serve fare affinché ciò non accada. Non è affatto un lavoro semplice, e, forse per fortuna, non esistono ricette.

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Come spesso mi capita, non so se la forma, il linguaggio di quanto ho scritto ne rappresenta il contenuto. E mi viene un dubbio, perché forse quello che volevo scrivere era troppo più grande di me, e potrei aver perso parte della bellezza di questo articolo. Lo scoprirò chiedendoti com’è andata l’esperienza del leggerlo.

Tieni conto che ho già, scientemente, scelto di non considerare la politica e i governi nei miei ragionamenti, ché non mi sembrano ancora alla mia portata.

 

1Di James P. Carse, Finite and infinite game.
2Per me è arte tutto ciò che crea relazione e comunicazione tra le cose, nel tempo e nello spazio. È arte ciò che tiene insieme le diversità, che crea la tensione necessaria alla gneratività. In questo senso, una vita può essere un’opera d’arte.
3Ho scelto di non menzionare attività produttive né artisti, non sono sicura sia una buona idea, per la mia integrità, ma non ho voglia di entrare in una discussione che rischierebbe di scendere ad altri livelli, toccando sensibilità e gusti che niente hanno a che vedere con quanto sto provando ad argomentare. Che ciascuno si faccia mentalmente i propri esempi. Aggiungo anche che per me, ciascun essere umano ha la possibilità di essere, in un certo senso, un artista.
4Per approfodimenti, si cerchi la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali, per esempio nei testi di Giovanni Liotti o più in generale delle prospettive evoluzionistiche della psicologia.
5Sto citando un bellissimo romanz di Eskol Nevo:  “- I prossimi Mondiali sono fra quattro anni, vero? Vale a dire che voi ne avreste esattamente trentadue. Sono esattamente… gli anni di gesso. – Gli anni di gesso? – È il termine usato da lui, da quello psicologo. Sono gli anni in cui il carattere delle persone s’indurisce, si cristallizza, come i gesso.”, in La simmetria dei desideri.
2024-08-07T13:31:05+02:00