Come stai? Diciamo bene…

//Come stai? Diciamo bene…

– Come stai?

– Mah, bene / Diciamo bene / Bene…

Senti che vorrebbe rispondere diversamente, solo che: male non sta (non è a rischio di vita); eppure quel bene non suona bene.

Stiamo tutti male?

No. È che non stiamo bene. Il fatto è che stare bene è qualcosa di più che non stare male. Questo è chiaro a tutti? Non so; ciò che credo è che sia sovente negato da tutti.

La definizione di salute che comprenda un benessere totale – fisico, sociale e mentale – esiste dal 1946 (WHO) eppure, per lo meno nel nostro paese, pretendere di stare più che bene è visto e vissuto da molti come un capriccio. Ciò non costituirebbe un problema, se poi in molti non fossero alla ricerca vana di benessere (di una sensazione di appagamento, di un senso di realizzazione di sé) attraverso, ad esempio, il consumo compulsivo. Si passa da un servizio a un altro, da un bene a un altro, senza mai trovarne un appagamento definitivo. Qualcuno vorrebbe a questo punto sostenere che la vita, si sa, è una dura e continua ricerca, e mi trova d’accordo se ciò di cui si sta parlando è di una ricerca che abbia una direzione e uno scopo e che porta con se, di conseguenza, momenti di gioia e condivisione. Viceversa, siamo di fronte a un tentativo di ricerca: interrotta, per essere sostenuta, da momenti di distrazione.

L’atteggiamento di molti adulti ricorda quello del bambino/adolescente: Voglio questo – no, ora voglio quest’altro. Nel bambino/adolescente questo atteggiamento è spesso osteggiato dall’adulto; l’adulto non sa che è proprio quella l’età in cui un tale atteggiamento è sano e utile. Provare fino in fondo qualcosa e scoprire che non è la cosa giusta per sé e quindi cambiare, e provare finché non ci si imbatte nella cosa più bella, giusta e appagante per sé, è faticoso ma assolutamente necessario per il bambino/adolescente, perché è lì che scopre chi è e cosa vuole, è lì che gioca la sua occasione di diventare un adulto appagato, che dia un senso alla propria vita attraverso il suo operato1. Questa ricerca oggi non è semplice neppure per l’adolescente; mancano i Maestri? Mancano quelle figure di riferimento adulte che affiancano e aiutano a conoscersi e a scegliere la propria strada [superfluo aprire una parentesi sul fallimento del sistema scolastico italiano].

Che ruolo ha in tutto ciò il professionista della salute?

Accade spesso che il fisioterapista, dermatologo, medico chirurgo, psicologo …e via dicendo, affermi io lavoro con casi gravi a garanzia del livello di qualità del suo lavoro.

Il suddetto professionista non sa che quella affermazione è tutt’altro che un buon bigliettino da visita, perché spesso corrisponde al non sapere come trattare (potenziare, rendere più efficiente…) la fisiologia. Il ricorso ai servizi sanitari, per intenderci, è aumentato in maniera esponenziale negli ultimi decenni [report on line dell’Istat] mandando in crisi gran parte delle Asl del Paese. Eppure gli individui non stanno bene.

Saper trattare la fisiologia vorrebbe dire non solo occuparsi sempre della componente psico-sociale ma anche di non trattare sempre i “malfunzionamenti” come malattia – in tutti quei casi in cui non è necessario. Siamo di fronte a una grande sfida: dopo decenni di “spacchettamenti” dell’essere umano (necessari, fondamentali) la sfida è ora re-impacchettarli per ritornare a vederlo come un tutt’uno.

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You look beautiful today! Cartolina presa in un locale di qualche città in cui mi trovavo a passare…

Molti dei professionisti della salute che non hanno saputo, o voluto, evolversi in professionisti del benessere, rispondono all’utente non gravemente malato in due modi:

1.lo fanno diventare paziente (=sei malato; in alcuni casi questo è molto semplice. Se pensiamo a uno psicologo, ci mette un attimo a trovare ciò che in te non va, perché: chi è esente da una esperienza negativa nella propria vita? Se non è uno psicologo, il farmaco sarà pronto a intervenire), oppure

2.lo fanno sentire un caso poco interessante (io lavoro con casi gravi). In questo secondo caso, il cliente ringrazia dopo una breve, spesso inefficace, consulenza, fa passare un po’ di tempo durante il quale si convince che “dai, sto bene”, e poi va in cerca di un altro professionista (o bene da consumare).

Essere un professionista del benessere vuol dire guardare il singolo essere umano nel suo insieme, nella sua natura e nel suo divenire; vuol dire anche lavorare in equipe (leggi: cooperazione); direte voi, è complesso. Si, lo è. Passare da 0 a +2 è molto più faticoso, oggi, che passare da -8 a 0.

Una delle scoperte più interessanti dei miei studi degli ultimi tempi è quella dell’esistenza, nell’essere umano, di tre mandati biologici fondamentali:

– la sicurezza (il ben noto istinto a sopravvivere),

– il bisogno di relazione (vedi l’attaccamento, la cooperazione, l’accudimento),

– il bisogno di un significato condiviso – l’essere umano cerca di dare un senso e un significato a se stesso, agli altri e alla vita.

La scoperta è che questi istinti coesistono nell’uomo, non ce n’è uno più importante di un altro, e che questa scoperta è sostenuta dalla scienza.

La condivisione delle culture, delle memorie, dei valori dell’essere umano non sono ‘capricci’, gli appartengono come l’istinto a sopravvivere; non solo: gli sono sempre appartenuti, anche in quei periodi storici (millenni fa) quando la speranza di vita era appena sopra i 30 anni: uomini e donne che danzano, praticando una spiritualità nella ricerca di un senso per la loro esistenza, al pari delle tribù ancestrali viventi ancora oggi in diverse aree del globo; uomini e donne che celebrano riti e che condividono significati (cultura) a prescindere dalla loro sopravvivenza.

Perché una Life Coach Umanista parla di tutto ciò?

Se gran parte dei professionisti della salute fossero stati capaci di evolversi, la mia professione non avrebbe avuto motivo di esistere.

Il Coaching Umanistico non nasce per dare/insegnare la felicità o per convincere che tutto è meraviglioso (no, non lo è; eppure c’è qualcuno che compra il tutto-meraviglioso!); nasce con uno scopo semplice e insieme complesso: affiancare l’individuo nella conoscenza di sé e del proprio scopo, delle fragilità e nonostante i suoi limiti, nel cammino verso l’autorealizzazione. Un Coach Umanista è interessato all’essere umano nel suo insieme, collabora con quei professionisti (medici, psicoterapeuti, maestri di sport e di arte) che accettano la stessa sfida e che possano intervenire laddove il Coaching non può arrivare. Il Coaching Umanistico, così concepito, può (dovrebbe) essere esercitato da un genitore, da un insegnante, da un allenatore, dallo stesso professionista della salute. A differenza di tutte quelle professioni per le quali il calzolaio può girare scalzo (purché sistemi le tue, di scarpe), un Coach Umanista deve essere in primo luogo Coach di se stesso, vale a dire conoscersi, conoscere la propria vocazione, conoscere il proprio potenziale e conoscere i propri limiti, e (Umanista!) avere uno scopo che vada al di là di sé.

Sono estremamente grata a quei professionisti della salute che salvano vite umane ogni giorno. Tanto per fare un esempio, la mia vita sarebbe stata un’altra senza quel neurochirurgo che salvò la vita di mia madre.

Quante volte, però, guardano negli occhi una persona cara, ci si è detti: cosa farei per vederti felice.

~

1Le riflessioni sugli adolescenti prendono in parte ispirazione da RINUNCIATARI. Come recuperare gli adolescenti alla deriva, di L. Stanchieri, 2014, ed.Narcissus.

2015-10-06T23:42:50+02:00